di Peter Wessel Zapffe
Un saggio di Peter Wessel Zapffe, datato 1933, pubblicato originariamente in Janus #9 in norvegese.
Questa traduzione è in corso. Il testo attuale si basa su traduzioni automatiche e manuali.
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I
1
Una notte, in tempi lontani, l’uomo si svegliò e vide se stesso.
2
Vide che era nudo sotto il cosmo, senza casa nel suo stesso corpo. Tutte le cose si dissolvevano davanti al suo pensiero di prova, la meraviglia sopra la meraviglia, l’orrore sopra l’orrore si dispiegavano nella sua mente.
3
Poi anche la donna si svegliò e disse che era ora di andare a uccidere. Allora egli prese il suo arco e le sue frecce, frutto del matrimonio tra spirito e mano, e uscì sotto le stelle. Ma quando le bestie arrivarono alle loro pozze d’acqua, dove le aspettava per abitudine, non sentì più il legame della tigre nel suo sangue, ma un grande salmo sulla fratellanza della sofferenza tra ogni cosa viva.
4
Quel giorno non tornò con la preda e quando lo trovarono alla successiva luna nuova, era seduto morto vicino alla pozza d’acqua.
II
5
Che cosa è successo? Una breccia nell’unità stessa della vita, un paradosso biologico, un abominio, un’assurdità, un’esagerazione di natura disastrosa. La vita aveva superato il suo obiettivo, facendosi saltare in aria. Una specie era stata armata troppo pesantemente – da uno spirito reso onnipotente all’esterno, ma ugualmente una minaccia per il suo stesso benessere. La sua arma era come una spada senza elsa né piastrina, una lama a due tagli che fendeva tutto; ma colui che deve brandirla deve afferrare la lama e rivolgere l’unico filo verso di sé.
6
Nonostante i suoi nuovi occhi, l’uomo era ancora radicato nella materia, la sua anima vi era immersa e subordinata alle sue leggi cieche. Eppure poteva vedere la materia come un estraneo, confrontarsi con tutti i fenomeni, vedere attraverso e localizzare i suoi processi vitali. Arriva alla natura come un ospite indesiderato, tendendo invano le braccia per chiedere la conciliazione con il suo creatore: La natura non risponde più, ha fatto un miracolo con l’uomo, ma poi non lo ha conosciuto. Ha perso il diritto di residenza nell’universo, ha mangiato dall’Albero della Conoscenza ed è stato espulso dal Paradiso. È potente nel mondo vicino, ma maledice la sua potenza come acquistata con la sua armonia d’anima, la sua innocenza, la sua pace interiore nell’abbraccio della vita.
7
Così eccolo lì con le sue visioni, tradito dall’universo, con stupore e paura. Anche la bestia conosceva la paura, nei temporali e sull’artiglio del leone. Ma l’uomo divenne timoroso della vita stessa, anzi, del suo stesso essere. La vita – che per la bestia era sentire il gioco del potere, era calore e giochi e lotte e fame, e poi alla fine inchinarsi davanti alla legge del corso. Nella bestia, la sofferenza è confinata in se stessa, nell’uomo, invece, si buca nella paura del mondo e nella disperazione della vita. Mentre il bambino si avvia verso il fiume della vita, i ruggiti della cascata della morte si levano alti sopra la valle, sempre più vicini, e strappano, strappano la sua gioia. L’uomo osserva la terra, che respira come un grande polmone; ogni volta che espira, la vita deliziosa brulica da tutti i suoi pori e si protende verso il sole, ma quando inspira, un gemito di rottura attraversa la moltitudine, e i cadaveri frullano al suolo come chicchi di grandine.
8
Non vedeva solo il suo giorno, i cimiteri si contorcevano davanti al suo sguardo, i lamenti di millenni sommersi si levavano contro di lui dalle forme spettrali in decomposizione, i sogni delle madri trasformati dalla terra. Il sipario del futuro si è aperto per rivelare un incubo di ripetizioni senza fine, un insensato spreco di materiale organico. La sofferenza di miliardi di esseri umani fa il suo ingresso in lui attraverso la porta della compassione, da tutto ciò che accade nasce una risata per deridere la richiesta di giustizia, il suo principio ordinatore più profondo. Si vede nascere nel grembo di sua madre, alza la mano in aria ed essa ha cinque rami; da dove viene questo diabolico numero cinque, e cosa ha a che fare con la mia anima? Non è più evidente a se stesso – si tocca il corpo con orrore: questo sei tu e ti estendi fino a qui e non oltre. Porta un pasto dentro di sé, ieri era una bestia che poteva sfrecciare da sola, ora la succhio e la faccio diventare parte di me, e dove inizio e dove finisco? Tutte le cose si concatenano in cause ed effetti, e tutto ciò che vuole afferrare si dissolve davanti al pensiero di prova. Presto vede la meccanica anche in ciò che è così lontano e caro, nel sorriso della sua amata – ci sono anche altri sorrisi, uno stivale strappato con le dita. Alla fine, le caratteristiche delle cose sono solo caratteristiche di se stesso. Nulla esiste senza di lui, ogni linea lo rimanda a lui, il mondo non è che un’eco spettrale della sua voce – salta in piedi urlando forte e vuole vomitarsi sulla terra insieme al suo pasto impuro, sente l’incombere della follia e vuole trovare la morte prima di perdere anche questa capacità.
9
Ma quando si trova davanti alla morte imminente, ne coglie anche la natura e l’importanza cosmica del passo che sta per compiere. La sua immaginazione creativa costruisce nuove, spaventose prospettive dietro la cortina della morte, e vede che anche lì non c’è rifugio. E ora può discernere i contorni dei suoi termini biologicocosmici: Egli è il prigioniero indifeso dell’universo, tenuto a cadere in possibilità senza nome.
10
Da questo momento in poi, è in uno stato di panico incessante.
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Questo “sentimento di panico cosmico” è fondamentale per ogni mente umana. In effetti, la razza sembra destinata a perire nella misura in cui ogni effettiva conservazione e continuazione della vita è esclusa quando tutta l’attenzione e l’energia dell’individuo sono destinate a sopportare, o a ritrasmettere, la catastrofica alta tensione interna.
12
La tragedia di una specie che diventa inadatta alla vita a causa dell’eccessiva evoluzione di una capacità non è limitata al genere umano. Si pensa, ad esempio, che alcuni cervi in epoca paleontologica siano morti per aver acquisito corna troppo pesanti. Le mutazioni devono essere considerate cieche, funzionano, vengono lanciate, senza alcun contatto di interesse con l’ambiente.
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Negli stati depressivi, la mente può essere vista nell’immagine di una tale corna, in tutto il suo fantastico splendore che immobilizza il suo portatore a terra.
III
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Perché, allora, non molto tempo fa l’umanità si è estinta durante grandi epidemie di follia? Perché solo un numero abbastanza ridotto di individui muore perché non riesce a sopportare lo sforzo della vita, perché la cognizione dà loro più di quanto possano portare?
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La storia culturale, così come l’osservazione di noi stessi e degli altri, permettono di dare la seguente risposta: La maggior parte delle persone impara a salvarsi limitando artificialmente il contenuto della coscienza.
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Se il cervo gigante, a intervalli opportuni, avesse spezzato le lance esterne delle sue corna, avrebbe potuto continuare ad andare avanti ancora per un po’. Ma nella febbre e nel dolore costante, anzi, tradendo la sua idea centrale, il nucleo della sua peculiarità, poiché era stato vocato dalla mano della creazione a essere il portatore di corna degli animali selvatici. Ciò che ha guadagnato in continuità, lo ha perso in significato, in grandezza di vita, in altre parole una continuità senza speranza, una marcia non verso l’affermazione, ma attraverso le sue rovine sempre ricreate, una corsa autodistruttiva contro la sacra volontà del sangue.
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L’identità tra scopo e fine è, sia per il cervo gigante che per l’uomo, il tragico paradosso della vita. Nel devoto Bejahung, l’ultimo Cervis Giganticus ha portato il distintivo della sua stirpe fino alla fine.
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L’essere umano si salva e va avanti. Compie, per estendere un’espressione consolidata, una repressione più o meno consapevole del suo dannoso surplus di coscienza. Questo processo è praticamente costante durante le ore di veglia e di attività ed è un requisito dell’adattabilità sociale e di tutto ciò che comunemente viene definito vita sana e normale.
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La psichiatria parte addirittura dal presupposto che il “sano” e il vitale siano in sintonia con il più alto in termini personali. La depressione, la “paura della vita”, il rifiuto del nutrimento e così via sono invariabilmente presi come segni di uno stato patologico e trattati di conseguenza. Spesso, però, tali fenomeni sono messaggi di un altro più profondo, più immediato, ha una crisi di confusione e di ansia e si guarda prontamente intorno per trovare un altro ancoraggio. “In autunno frequenterò la scuola media”. Se la sostituzione in qualche modo fallisce, la crisi può assumere un andamento fatale, oppure si verifica quello che chiamerò uno spasmo di ancoraggio: Ci si aggrappa ai valori morti, nascondendo il più possibile a se stessi e agli altri il fatto che sono impraticabili, che si è spiritualmente insolventi. Il risultato è un’insicurezza duratura, “sentimenti di inferiorità”, ipercompensazione, irrequietezza. Nella misura in cui questo stato rientra in determinate categorie, viene sottoposto al trattamento psicoanalitico, che mira a completare la transizione verso nuovi ancoraggi.
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L’ancoraggio potrebbe essere caratterizzato come una fissazione di punti all’interno, o una costruzione di muri intorno, alla liquida mischia della coscienza. Gli ancoraggi pubblicamente utili sono accolti con simpatia, chi “si sacrifica totalmente” per il suo ancoraggio (la ditta, la causa) è idolatrato. Egli ha stabilito un potente baluardo contro la dissoluzione della vita, e altri, per suggestione, stanno guadagnando dalla sua forza. In una forma brutalizzata, come azione deliberata, si trova tra i playboy “decadenti” (“bisogna sposarsi in tempo, e poi i vincoli verranno da sé”). In questo modo si stabilisce una necessità nella propria vita, esponendosi a un male evidente dal proprio punto di vista, ma un calmante per i nervi, un contenitore dalle pareti alte per una sensibilità alla vita che si è fatta sempre più cruda. Ibsen presenta, in Hjalmar Ekdal e Molvik, due casi fioriti (“bugie viventi”); non c’è differenza tra il loro ancoraggio e quello dei pilastri della società, se non per l’improduttività pratico-economica del primo.
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Qualsiasi cultura è un grande sistema arrotondato di ancoraggi, costruito sui firmamenti fondamentali, le idee culturali di base. La persona media si accontenta dei firmamenti collettivi, la personalità costruisce per sé, la persona di carattere ha terminato la sua costruzione, più o meno fondata sui firmamenti principali ereditati e collettivi (Dio, la Chiesa, lo Stato, la morale, il destino, la legge della vita, il popolo, il futuro). Più un certo elemento portante è vicino ai firmamenti principali, più è pericoloso toccarlo. In questo caso si stabilisce normalmente una protezione diretta attraverso codici penali e minacce di azioni penali (inquisizione, censura, approccio conservatore alla vita).
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La capacità di carico di ogni segmento dipende dal fatto che la sua natura fittizia non è stata ancora percepita, oppure dal fatto che è comunque riconosciuta come necessaria. Da qui l’educazione religiosa nelle scuole, che anche gli atei sostengono perché non conoscono altro modo per far entrare i bambini nelle modalità di risposta sociale.
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Quando gli uomini si rendono conto della fittizietà o della ridondanza dei segmenti, si sforzano di sostituirli con altri (“la durata limitata delle verità”) – e da qui scaturisce tutta la lotta spirituale e culturale che, insieme alla competizione economica, forma il contenuto dinamico della storia mondiale.
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Il desiderio di beni materiali (potere) non è dovuto tanto ai piaceri diretti della ricchezza, poiché nessuno può essere seduto su più di una sedia o mangiare più che sazio. Piuttosto, il valore di una fortuna per la vita consiste nelle ricche opportunità di ancoraggio e distrazione offerte a chi la possiede.
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Sia per gli ancoraggi collettivi che per quelli individuali, si sostiene che quando un segmento si rompe, c’è una crisi che è tanto più grave quanto più quel segmento è vicino ai firmamenti principali. All’interno dei circoli interni, al riparo dei bastioni esterni, tali crisi sono eventi quotidiani e abbastanza indolori (“delusioni”); si assiste persino a un gioco con i valori di ancoraggio (arguzia, gergo, alcol). Ma durante questo gioco si può accidentalmente fare un buco fino in fondo, e la scena si trasforma immediatamente da euforica a macabra. Il terrore dell’essere ci fissa negli occhi, e in un getto mortale percepiamo come le menti siano appese a fili che girano da soli, e che un inferno è in agguato sotto di loro.
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Raramente i firmamenti fondanti vengono sostituiti senza grandi spasmi sociali e senza il rischio di una completa dissoluzione (riforma, rivoluzione). In questi periodi, gli individui sono sempre più abbandonati a se stessi per ancorarsi, e il numero di fallimenti tende ad aumentare. Ne conseguono depressioni, eccessi e suicidi (ufficiali tedeschi dopo la guerra, studenti cinesi dopo la rivoluzione).
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Un altro difetto del sistema è il fatto che i vari fronti di pericolo spesso richiedono firmamenti molto diversi. Quando si costruisce una sovrastruttura logica su ciascuno di essi, si verificano scontri tra modi di sentire e di pensare incommensurabili. E allora la disperazione può entrare attraverso le fessure.
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In questi casi, una persona può essere ossessionata da una gioia distruttiva, che smantella l’intero apparato artificiale della sua vita e inizia con estasiante orrore a farne tabula rasa. L’orrore deriva dalla perdita di tutti i valori protettivi, dall’estasi per l’identificazione e l’armonia ormai spietata con il segreto più profondo della nostra natura, dall’insensatezza biologica, dalla disposizione permanente alla rovina.
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Amiamo gli ancoraggi perché ci salvano, ma li odiamo anche perché limitano il nostro senso di libertà. Quando ci sentiamo abbastanza forti, proviamo piacere ad andare insieme a seppellire un valore scaduto con stile. Gli oggetti materiali assumono qui un’importanza simbolica (approccio radicale alla vita).
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Quando l’essere umano ha eliminato i suoi ancoraggi visibili e solo quelli inconsci restano al loro posto, allora potrà definirsi una personalità liberata.
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Una modalità di protezione molto diffusa è la distrazione. Si limita l’attenzione ai limiti della critica, affascinandola costantemente con impressioni. Questo è tipico anche nell’infanzia; senza distrazione, il bambino è insopportabile anche a se stesso. “Mamma, cosa devo fare?”. Una bambina inglese in visita alle zie norvegesi entrò dalla sua stanza dicendo: “Cosa succede adesso?”. Le infermiere raggiungono il virtuosismo: Guarda, un cagnolino! Guarda, stanno dipingendo il palazzo! Il fenomeno è troppo familiare per richiedere ulteriori dimostrazioni. La distrazione è, ad esempio, la tattica di vita dell’alta società. Può essere paragonata a una macchina volante – fatta di materiale pesante, ma che racchiude un principio che la mantiene in volo ogni volta che si applica. Deve essere sempre in movimento, perché l’aria la trasporta solo fugacemente. Il pilota può assopirsi e sentirsi a proprio agio per abitudine, ma la crisi si fa sentire non appena il motore si guasta.
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La tattica è spesso pienamente consapevole. La disperazione può albergare proprio sotto di noi e irrompere a fiotti, in un improvviso singhiozzo. Quando tutte le opzioni di distrazione sono esaurite, si scatena lo spleen, che va da una lieve indifferenza a una depressione fatale. Le donne, in genere meno inclini alla cognizione e quindi più sicure nella loro vita rispetto agli uomini, usano di preferenza la distrazione.
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Un male considerevole della prigionia è la negazione della maggior parte delle opzioni di distrazione. E poiché anche le condizioni di liberazione con altri mezzi sono scarse, il prigioniero tenderà a rimanere nelle immediate vicinanze della disperazione. Gli atti che compie per deviare lo stadio finale hanno una giustificazione nel principio stesso della vitalità. In quel momento sta sperimentando la sua anima all’interno dell’universo e non ha altro motivo che la totale inendibilità di quella condizione.
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Gli esempi puri di panico vitale sono presumibilmente rari, poiché i meccanismi di protezione sono raffinati e automatici e, in qualche misura, incessanti. Ma anche il terreno adiacente porta il segno della morte, la vita è qui appena sostenibile e con grandi sforzi. La morte appare sempre come una via di fuga, si ignorano le possibilità dell’aldilà e, poiché il modo in cui la morte viene vissuta dipende in parte dai sentimenti e dalla prospettiva, potrebbe essere una soluzione abbastanza accettabile. Se una persona in statu mortis potesse gestire una posa (una poesia, un gesto, per “morire in piedi”), cioè un ultimo ancoraggio, o un’ultima distrazione (la morte di Aases), allora tale destino non è affatto il peggiore. La stampa, per una volta al servizio del meccanismo di occultamento, non manca mai di trovare ragioni che non destano alcun allarme – “si ritiene che l’ultimo calo del prezzo del grano…”
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Quando un essere umano si toglie la vita per depressione, si tratta di una morte naturale per cause spirituali. La moderna barbarie di “salvare” i suicidi si basa su un’errata comprensione della natura dell’esistenza.
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Solo una parte limitata dell’umanità può accontentarsi di semplici “cambiamenti”, nel lavoro, nella vita sociale o nell’intrattenimento. La persona colta esige connessioni, linee, una progressione nei cambiamenti. Niente di finito soddisfa a lungo, si procede sempre, si raccoglie conoscenza, si fa carriera. Questo fenomeno è noto come “desiderio” o “tendenza trascendentale”. Ogni volta che si raggiunge una meta, il desiderio si sposta; quindi il suo oggetto non è la meta, ma il suo stesso raggiungimento – la pendenza, non l’altezza assoluta, della curva che rappresenta la propria vita. La promozione da soldato semplice a caporale può dare un’esperienza più preziosa di quella da colonnello a generale. Qualsiasi motivo di “ottimismo progressivo” è eliminato da questa importante legge psicologica.
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L’anelito umano non è semplicemente caratterizzato da una “tensione verso”, ma anche da una “fuga da”. E se usiamo la parola in senso religioso, solo quest’ultima descrizione si adatta. Infatti, in questo caso, non è ancora chiaro ciò che si desidera, ma si ha sempre la consapevolezza di ciò da cui si desidera fuggire, ossia la valle di lacrime terrena, la propria condizione insopportabile. Se la consapevolezza di questa condizione è lo strato più profondo dell’anima, come sostenuto sopra, allora si capisce anche perché l’anelito religioso sia sentito e vissuto come fondamentale. Per contro, la speranza che esso costituisca un criterio divino, che contiene la promessa del proprio compimento, è posta in una luce davvero malinconica da queste considerazioni.
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Il quarto rimedio contro il panico, la Sublimazione, è una questione di trasformazione piuttosto che di repressione. Attraverso le doti stilistiche o artistiche si può convertire il dolore stesso della vita in esperienze di valore. Gli impulsi positivi si inseriscono nel male e lo mettono al proprio servizio, attaccandosi ai suoi aspetti pittorici, drammatici, eroici, lirici o addirittura comici.
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Tuttavia, a meno che non si riesca a smorzare il dolore peggiore con altri mezzi o a negare il controllo della mente, tale utilizzo è improbabile. (Immagine: L’alpinista non si gode la vista dell’abisso mentre soffoca per le vertigini; solo quando questa sensazione è più o meno superata ne gode – ancorato). Per scrivere una tragedia, bisogna in qualche modo liberarsi dal sentimento stesso della tragedia e considerarla da un punto di vista esterno, ad esempio estetico. È questa, tra l’altro, l’occasione per il più sfrenato girotondo attraverso livelli di ironia sempre più alti, in un circolo vizioso molto imbarazzante. Qui si può inseguire il proprio ego attraverso numerosi habitat, godendo della capacità dei vari strati di coscienza di dissiparsi a vicenda.
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Il presente saggio è un tipico tentativo di sublimazione. L’autore non soffre, riempie pagine e sta per essere pubblicato su una rivista.
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Il “martirio” delle donne sole mostra anche una sorta di sublimazione: in questo modo acquistano significato.
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Tuttavia, la sublimazione sembra essere il più raro dei mezzi di protezione qui menzionati.
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È possibile che le “nature primitive” rinuncino a questi fastidi e cavilli e vivano in armonia con se stesse nella serena beatitudine del lavoro e dell’amore? Nella misura in cui possono essere considerate umane, credo che la risposta sia no. L’affermazione più forte che si può fare sui cosiddetti popoli della natura è che essi sono un po’ più vicini al meraviglioso ideale biologico di quanto non lo siano noi persone innaturali.
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E quando finora siamo riusciti a salvare una maggioranza attraverso ogni tempesta, siamo stati aiutati dai lati della nostra natura che sono solo modestamente o moderatamente sviluppati. Questa base positiva (poiché la protezione da sola non può creare la vita, ma solo ostacolarla) va cercata nel dispiegamento naturalmente adattato dell’energia del corpo e delle parti biologicamente utili dell’anima1, soggetta alle difficoltà dovute proprio alle limitazioni sensoriali, alla fragilità corporea e alla necessità di lavorare per la vita e l’amore.
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E proprio in questa terra finita di beatitudine all’interno delle frontiere, il progresso della civiltà, della tecnologia e della standardizzazione ha un’influenza così svilente. Infatti, mentre una frazione sempre crescente delle facoltà cognitive si ritira dal gioco contro l’ambiente, cresce la disoccupazione spirituale. Il valore di un progresso tecnico per l’intera impresa della vita deve essere giudicato in base al suo contributo all’opportunità umana di occupazione spirituale. Anche se i confini sono labili, forse i primi strumenti per tagliare potrebbero essere citati come un caso di invenzione positiva.
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Altre invenzioni tecniche arricchiscono solo la vita dell’inventore stesso; rappresentano un furto grossolano e spietato dalla riserva comune di esperienze dell’umanità e dovrebbero invocare la punizione più severa se rese pubbliche contro il veto della censura. Uno di questi crimini, tra i tanti, è l’uso di macchine volanti per esplorare terre inesplorate. In un unico globo vandalico, si distruggono così lussureggianti opportunità di esperienza che potrebbero andare a beneficio di molti se ciascuno, con uno sforzo, ottenesse la sua giusta parte2.
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L’attuale fase di febbre cronica della vita è particolarmente contaminata da questa circostanza. L’assenza di attività spirituali su base naturale (biologica) si manifesta, ad esempio, nel ricorso pervasivo alla distrazione (intrattenimento, sport, radio – “il ritmo dei tempi”). Le condizioni per l’ancoraggio non sono altrettanto favorevoli: tutti i sistemi di ancoraggio ereditati e collettivi sono perforati dalla critica, e l’ansia, il disgusto, la confusione, la disperazione trapelano attraverso le fessure (“cadaveri nel carico”). Il comunismo e la psicoanalisi, per quanto altrimenti incommensurabili, tentano entrambi (poiché il comunismo ha anche un riflesso spirituale) con mezzi nuovi di variare la vecchia fuga; applicando, rispettivamente, la violenza e l’astuzia per rendere gli esseri umani biologicamente idonei intrappolando il loro surplus critico di cognizione. L’idea, in entrambi i casi, è straordinariamente logica. Ma, ancora una volta, non può dare una soluzione definitiva. Sebbene una degenerazione deliberata verso un nadir più sostenibile possa certamente salvare la specie nel breve periodo, per sua natura essa non sarà in grado di trovare pace in tale rassegnazione, né di trovare alcuna pace.
V
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Se continuiamo a fare queste considerazioni fino in fondo, la conclusione non è in dubbio. Finché l’umanità procederà incautamente nella fatidica illusione di essere biologicamente destinata al trionfo, nulla di essenziale cambierà. Man mano che il suo numero aumenta e l’atmosfera spirituale si addensa, le tecniche di protezione devono assumere un carattere sempre più brutale.
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E gli uomini continueranno a sognare la salvezza, l’affermazione e un nuovo Messia. Ma quando molti salvatori saranno stati inchiodati agli alberi e lapidati sulle piazze delle città, allora verrà l’ultimo Messia.
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Allora apparirà l’uomo che, primo fra tutti, ha osato denudare la propria anima e sottoporla viva al pensiero supremo della stirpe, all’idea stessa di sventura. Un uomo che ha scandagliato la vita e il suo terreno cosmico, e il cui dolore è il dolore collettivo della Terra. Con quali urla furiose le folle di tutte le nazioni non grideranno alla sua morte millenaria, quando come un drappo la sua voce avvolgerà il globo e lo strano messaggio sarà risuonato per la prima e ultima volta:
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“- La vita dei mondi è un fiume impetuoso, ma quella della Terra è uno stagno e un’acqua di fondo.
– Il segno del destino è scritto sulla vostra fronte: per quanto tempo riuscirete a resistere alle punture di spillo?
– Ma c’è una conquista e una corona, una redenzione e una soluzione.
– Conoscete voi stessi – siate sterili e che la terra taccia dopo di voi“.
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E quando avrà parlato, si riverseranno su di lui, guidati dai fabbricanti di ciucci e dalle levatrici, e lo seppelliranno con le loro unghie.
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È l’ultimo Messia. Come figlio dal padre, deriva dall’arciere presso la pozza d’acqua.
Peter Wessel Zapffe, 1933